La forma del “consenso informato” tra una Cassazione che stecca e un legislatore sbadato

La forma del “consenso informato” tra una Cassazione che stecca e un legislatore sbadato
16 Aprile 2018: La forma del “consenso informato” tra una Cassazione che stecca e un legislatore sbadato 16 Aprile 2018

La recente sentenza n. 7248/18 della Cassazione è un compendio della consolidata giurisprudenza di legittimità in tema consenso informato all’atto medico.

Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, sembrerebbe.

In realtà, non è proprio così, perché la motivazione della sentenza si chiude con un’affermazione davvero sorprendente, e cioè asserendo l’invalidità di un “consenso prestato verbalmente” dal paziente.

Le ragioni di questo assunto però non vengono spiegate, perché la Corte si limita ad asserire di voler “dare seguito” all’”orientamento” espresso in una propria precedente decisione.

Neppure la lettura di quest’ultima (la n. 19212/2015) aiuta a comprendere, perché questa si era limitata ad affermare che, se non adempie alla prestazione di “acquisire un completo ed esauriente consenso informato del paziente” il medico che gli sottoponga un “modulo del tutto generico”, dovrebbe “ritenersi a fortiori inidoneo un consenso come nella specie dalla paziente asseritamente prestato oralmente”.

Nulla di più.

Stupisce allora di dover ricordare al giudice di legittimità che il principio della libertà di forma dei negozi giuridici è consacrato nell’art. 1325 c.c. ed è a maggior ragione applicabile agli atti unilaterali atipici, quale era il “consenso informato” (fino al 31 gennaio 2018).

E tanto meno può escludersi che il medico possa provare di aver comunicato verbalmente al paziente le informazioni necessarie per rendere “consapevole” il suo consenso, non sussistendo limitazioni di sorta al diritto alla prova di un fatto del genere.

Sotto il profilo giuridico il discorso può finire qui: la Cassazione questa volta ha “steccato”.

Ma questo errore rischia di avere pesanti ricadute anche sul piano, per così dire, pedagogico.

Dopo essersi sentiti (giustamente) rimproverare dalla Corte l’abuso di “moduli del tutto generici” (tuttora in molti casi propinati ai pazienti in assenza di una qualsiasi seria informazione), i medici e le strutture sanitarie ora si sentono dire che il consenso “orale” del paziente non conterebbe nulla.

Col risultato pratico che l’unico modo di acquisire un consenso valido consisterebbe allora nel sottoporre al paziente un modulo “specifico” (e cioè in molti casi una piccola enciclopedia medica di rischi possibili ed alternative proponibili), essendo invece irrilevante, perché legalmente inefficace, qualsiasi forma di comunicazione verbale tra medico e paziente.

In tal modo, anziché promuovere quello che, intuitivamente, è l’unico modo per consentire una reale trasmissione delle informazioni necessarie dal professionista medico al paziente, e cioè quello dialogico, per sua natura “orale”, si finirebbe per scoraggiarlo.

La forma scritta diverrebbe l’unico salvacondotto per evitare la sanzione giuridica della responsabilità civile, trasformando però il “consenso informato” in un simulacro burocratico paragonabile ad uno dei tanti contratti per adesione che ciascuno di noi si è ormai rassegnato a sottoscrivere pur di fruire di servizi indispensabili (il conto corrente bancario, l’utenza telefonica e tanti altri simili).

Il che dimostra una volta di più come, in materia di diritto civile, “orientamenti” giurisprudenziali apparentemente ipergarantisti possano produrre effetti paradossali.

Indubbiamente il Collegio avrebbe potuto evitare un errore così macroscopico, se solo avesse avuto presente quanto affermava un suo autorevole esponente nella relazione tenuta nel 2011 ad un Seminario organizzato dalla stessa Corte di Cassazione:

La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente: Cass. 25.7.1967 n. 1950; Cass. 6.12.1968 n. 3906, in Resp. civ. prev. 1970, 389; Cass. 18.6.1975 n. 2439). Naturalmente, la forma scritta resta quella preferibile, in quanto facilita enormemente il problema della prova del consenso”.

Meglio di così non si sarebbe potuto dire.

La brillante sintesi di quel relatore (che, per ironia della sorte, ha fatto parte del Collegio che ha pronunciato la sentenza n. 7248/2018) sottolinea come quest’ultima abbia indebitamente trasposto una problematica che attiene alla prova del “consenso informato”, di certo più agevole quando esso sia stato reso per iscritto, al piano del suoi requisiti di validità.

Ma il nostro legislatore non ha fatto di meglio.

Il 31 gennaio scorso, infatti, è entrata in vigore la legge n. 219/2017 “in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, il cui articolo 1, al quarto comma,  prevede:

Il consenso informato, acquisito nei modi e con  gli  strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è  documentato  in  forma scritta  o  attraverso  videoregistrazioni  o,  per  la  persona  con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di  comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

Non è questa la sede per proporre un’interpretazione ragionata di questa disposizione, ma occorre dire che il legislatore non ha di certo agevolato il compito dell’interprete, quanto alla forma che ha inteso richiedere per il “consenso informato”.

L’infelice formulazione dell’enunciato, infatti, non mancherà di indurre i lettori più superficiali a ravvisarvi la definitiva conferma dell’indispensabilità della forma scritta.

Ma così certamente non è, sia perché la prima parte della disposizione non sanziona con la nullità l’inosservanza di quanto prescrive, sia perché essa, a ben guardare, riguarda l’“acquisizione” e la “documentazione” del “consenso informato”, e non il consenso stesso.

A questo, semmai, si riferisce la sua seconda parte, laddove si ammette che possa essere espresso “in qualunque forma”, e quindi anche… “oralmente”.

Ciò che peraltro trova corrispondenza col principio programmaticamente proclamato dall’ottavo comma dello stesso art. 1, per cui “il tempo della comunicazione tra medico e paziente  costituisce tempo di cura”, sì che proprio questo dialogo, necessariamente verbale, assume un ruolo centrale nell’intera disciplina del consenso informato.

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